Fare un film 3
Thomas Wild Turolo è un regista, sceneggiatore, documentarista e film maker, la cui carriera artistica è varia e completa. Nato (dopo un periodo di formazione) come attore drammatico, passa al cabaret dopo qualche anno e, infine, si laurea in Cinematografia e Televisione (DAMS) collaborando con il mondo della pubblicità e della televisione. Ora è un regista e documentarista. http://www.thomasturolo.altervista.org/index.html
...Bisogna avere la forza di guardare da prospettive anche scomode
Intervista a Thomas Wild Turolo a cura di Paola Lirusso
D - Quanto prendi e quanto dai nelle tue realizzazioni filmiche?
R - Prendo tutto quello che la realtà e la sensibilità altrui mi vogliono o possono dare, poi sia sul momento che in seguito io ci metto tutto quello che ho per dare ai soggetti tutta la dignità e fedeltà possibili. Sul momento, quando sei in una situazione o in un contesto particolare, devi metterti in gioco per fare in modo che i soggetti dei tuoi film si sentano tutto tranne che “soggetti” appunto, ma che invece si sentano a loro agio e si possano aprire al dialogo e alle domande. Quindi è un sistema sinergico quello che si deve creare, sensibilità che si uniscono e risuonano insieme. Funziona allo stesso modo anche con gli attori, dare loro tutto l’appoggio per avere l’interpretazione migliore, raggiungere insieme il risultato che in realtà io poi alla fine reputo essere il migliore; sensibilità che devono concertarsi. Non si può, secondo me, dare meno del 100%.
D - Vedendo anche solo piccoli pezzi dei tuoi video si comprende quanto la tua sensibilità lasci un segno nei popoli che avvicini, anche se si comprende quanto gli stessi diano a te. Puoi dirci qualcosa in merito?
R- Il rapporto con mondi estranei o esotici, contesti di povertà o difficili, situazioni estranee o inattese, lasciano segni molto profondi nell’animo. Sono convinto che il viaggio, il vivere, prima di tutto siano composti dall’esperienza umana, dalla forza genuina dell’incontro e poi venga tutto il resto; c’è una crescita continua dovuta al confronto con altri esseri umani che mai magari avrei pensato di poter incontrare in passato. Nelle esperienze professionali ed umane che sto facendo, esistono poi due fasi distinte, quando sono sul campo e mi relaziono con i contesti in cui mi caccio (mai facili…) la mia sensibilità mi rende osservatore, mi fa immergere nel posto, mi focalizza completamente su chi ho davanti, mi rende attento a ogni cosa, le sensazioni anche pesanti o brutte sono, non saprei spiegare come, incanalate per essere catturate e portate agli occhi altrui; a casa invece senza la necessità di portare a termine il compito prefissato si sprigionano in maniera diversa, diversamente istintiva. Mentre lavoro riesco a usare me stesso per descrivere la sensazione che provo e la porgo così agli altri, a casa la sensazione invece torna completamente mia e la vivo intimamente. In sintesi sono continuamente impressionato nell’anima dal contatto con le realtà che visito, sono una pellicola esposta in continuazione; diciamo che ci vuole un po’ di forza per digerire certe cose a volte. Quando parto so a che punto sono, ma non so a che punto evolutivo sarò al ritorno.
D - Dal punto di vista filmico quali difficoltà tecnico/organizzative hai trovato nella realizzazione dei tuoi reportage?
R - Non so se basterebbe un’intervista per spiegarle tutte, dalle produzioni con budget scarsi, all’assenza delle stesse, ai problemi tecnici relativi alle singole situazioni, le mancanze di condizioni per fare interviste o per riprendere luoghi, l’impossibilità per cause oggettive di lavorare con serenità e calma (fare il clandestino in paesi complessi è un buon modo per esempio…), fino a volte alle discussioni sulle post produzioni e con i committenti. Detta così sembrerei sconsigliare di fare il regista e il film maker a chiunque, ma non è il mio intento. C’è un cammino di crescita e più ci si allontana dal punto di partenza più le condizioni di lavoro migliorano, bisogna “solo” avere la forza di perseverare e capire che il risultato finale, cioè il film, è la meta da raggiungere e che la parola impossibile non deve esistere, o meglio deve essere aggirata. Una cosa va detta sulla parte organizzativa del mestiere, produrre un audiovisivo decente è lungo e comporta mille problemi, il primo dei quali è, se avete un committente, proprio il committente. Dovete organizzarvi per fare capire a chi vi commissiona il lavoro che ogni tanto è necessario fidarsi di voi e seguirvi, oppure se capirete che è fiato sprecato, saprete fin da subito che a volte non è importante il lavoro più bello, ma quello che raggiunge lo scopo prefissato… quindi raggiungerlo al meglio è la strategia. Organizzatevi soprattutto ad essere pronti a tutto e tutto funzionerà.
D - Cosa spinge un giovane regista a intraprendere la strada del reportage/documentario?
R - Io ho iniziato la carriera con la pubblicità, scrivendone e dirigendone, ma poi visti i tempi, dopo un passaggio lavorativo nella televisione di informazione, sono arrivato alla documentaristica, per vari motivi in realtà. Il mio percorso mi riporterà di nuovo al sentiero del cinema o della televisione di “finzione”, mi sto adoperando per questo, ma la scuola documentaristica è fondamentale. Quando ero all’università qualche anno fa decisi di approfondire nel curriculum di studi la sceneggiatura, sacrificando proprio la documentaristica, poi la vita mi ha riportato a forza sul documentario ed è il genere che mi ha fatto conoscere, strano destino… Il documentario ha vari vantaggi, budget che possono essere ridotti, se il soggetto è valido la tecnica può anche essere in parte leggermente sacrificata, si può sperimentare e soprattutto capire cosa sia anche il giornalismo… Insomma una grande scuola che può dare immense soddisfazioni. Mi raccomando, se posso permettermi un piccolo consiglio, non è sempre il viaggio costoso ed esotico a decretare il successo di un doc., ma è la storia e come la trattate che lo faranno emergere.
D - E’ solo necessità oppure è anche il desiderio di conoscere altri popoli e luoghi?
R - Nel mio caso, oltre ai fattori esterni che mi hanno fatto lavorare al documentario, ci sono stati due desideri che mi sono nati in cuore. Inizialmente per me il documentario è stato attualità e società, indagine nei problemi che ci circondano partendo dai punti di vista meno indagati e che invece ritenevo i più interessanti. Il primo documentario che ho fatto parlava di crisi del lavoro e suicidi nel 2009, quando il fenomeno non era così diffuso, lo feci come primo esperimento, viaggiando nel Nord Italia per fare emergere l’animo e la psiche delle persone e uscire dalla logica dei numeri usato in televisione. Ogni uomo ha una vita, ogni caso di difficoltà del lavoro porta un singolo o una famiglia in crisi. Era il punto di vista che volevo invertire, molte autorità nei luoghi pubblici non gradirono, ma alla fine sono ancora incensurato, solo minacce. Penso che ci siano molte cose vicine a noi degne di film che possono essere grandiosi, bisogna solo porgerli all’occhio del pubblico nel modo “giusto”, avere la forza di guardare da prospettive anche scomode. Poi per me sono arrivati i viaggi, scelti perché mi davano opportunità uniche, contatti unici, luoghi difficili da raggiungere; amo la scoperta, mi ci sono ovviamente buttato. Il contatto con i beduini siriani, così come con i reduci della guerra dello Sri Lanka per esempio mi hanno reso più maturo come persona, prima di conoscerli ero davvero incuriosito, ora che li ho conosciuti sono onorato e fortunato di averci speso del tempo, di averli incontrati. Umanità nei suoi diversi aspetti, questo mi spinge in luoghi impensabili.
D - Quanto serve essere documentati prima dell’inizio video? Si può andare a caso e poi costruire una storia?
R - Essere documentati serve tantissimo secondo me, aiuta a prepararsi sia alle tematiche che si tratteranno sia alle situazioni in cui ci si può trovare. Prepararsi quindi, studiare, ma al tempo stesso, come diceva Renoir lasciare sempre una porta aperta sul set; a volte un soggetto può essere generico o macroscopico e solo la scoperta sul posto lo può indirizzare, quindi mai imporsi troppo sugli argomenti, affiancarli e descriverli, ma essere pronti al fatto che possano differenziarsi dalle nostre idee iniziali.
D - Una domanda o più… che avevo fatto anche ad Andrea Camerotto: Quanta verità c’è in un video documentario? --Quanta ricostruzione, forse contaminata solo dal fatto di provenire da un altro paese? Non credi sia facile portare con sé “il giudizio” “il condizionamento”di un modo di vedere… cosa ne pensi?
R - Penso che se un documentario è fatto bene sia sempre vero, al tempo stesso il pregiudizio è insito nell’animo umano, è un fattore naturale e culturale, ma se si vuole davvero descrivere una realtà bisogna lavarsi dal superfluo e guardare con gli occhi aperti, dare naturalezza a quello di cui si parla. Mettersi in discussione all’interno di un soggetto e avvicinarlo alla propria idea di regia dello stesso. Esistono documentari meravigliosi anche di grosse produzioni, che sembrano realtà inconfutabili e pura naturalezza, poi magari si scopre che hanno sconvolto vita e realtà dei soggetti ritratti, qui posso solo dire che l’aspetto tecnico è stato fatto davvero bene ma quello morale e di studio manca il segno in favore dell’audience.
D - Immagino tu segua tutte le fasi della realizzazione del video, fino al montaggio , qui la domanda : quanto il montaggio riesce a rispettare il ruolo di testimonianza che deve avere il documentario?
R - Il montaggio finalizza un intero sistema organico. Io spesso seguo tutto e faccio tutto da me, anche se le volte in cui non inizio e concludo io mi sento più forte, perché attraverso il filtro di un altro professionista riesco ad essere più oggettivo e lucido. Il confronto aiuta a migliorare, le mie idee e intenzioni restano forti e le stesse, sennò non farei questo mestiere, ma al tempo stesso sono aiutate e finalizzate con più forza. Come dicevo all’inizio il montaggio è “l’imbuto finale del film”, quindi deve evidenziarne ancora meglio essenza e intenzione registica…
D - Quando realizzi un video hai uno sguardo per il tuo ruolo artistico o ti imponi una forma visiva utile solo allo scopo prefisso?
R - Fondo le due cose, nel senso che tendo a mantenere un certo linguaggio filmico che poi si adatta alla trattazione. Per me la regia è un po’ come la scrittura, ognuno sviluppa un suo stile peculiare, dopo questo ovvio tratta ogni argomento diversamente ma con la propria scrittura tipica. Io la vedo così, anzi io la vivo così. Fare regia nel mio personale vissuto significa tessere con un filo una serie di tessuti in un unico vestito, per essere bello questo vestito ha bisogno della perizia di uno o più, ma le cuciture devono essere ben fatte e resistenti, anche se non grossolanamente visibili… Amo “impormi artisticamente” come presenza riconoscibile ma non invasiva…segue
Thomas Wild Turolo